15 dicembre 2011

Piz Badile

Sono ormai 11 anni che l'Alp di novembre 2000 riappare ciclicamente vicino al mio letto, ed è sempre sintomo che certi spazi stanno diventando troppo stretti. Di motivi ce ne sono sempre; sarà così anche per chi parla della montagna come una necessità? O solo per chi la usa per annullare completamente le componenti futili di una vita difficile da decifrare? La copertina è sopravvissuta alla pausa di un anno abbondante dall'arrampicata, per poi rispuntare puntuale.



Trasferito a Milano il Pizzo Badile è diventata, abbastanza casualmente, una montagna da qualche parte, raggiungibile. Assieme a me, l'Alp si era trasferito a Milano e qui di spazi da riempire ce ne sarebbero molti, anche se con pochi compagni, ma 900m di granito che partono in Svizzera da un ghiacciaio e arrivano in Italia a 3300 m sono quello che immagino poter essere il mezzo migliore per esprimere il senso di libertà e polarizzano inesorabilmente ogni altro pensiero. 
Leggo l'Alp, anzi ne interrogo le immagini cercando di dare una forma più completa a quella che sta diventando un'idea fissa. Muoversi per 900m in posizioni continue e fluide, senza interruzione se non qualche sigaretta e controllo della relazione; niente grida per dire quali manovre fare e far fare, nessun recupero di corda, nessun attrito scalando. 
Insomma ci sono momenti in cui il desiderio di sentire, per un istante almeno, il corpo libero da tutto, è una sensazione che quando prevale sulla razionalità, riesce a deviarla verso rotte conflittuali e a volte disperate fino a saziarsi. Nemmeno per i sassi dall'alto serve gridare attenzione, ci sei solo tu e dura tutto un istante. Hai proprio quella sensazione: ad ogni cosa, anche se può sembrare un tempo lungo, devi dare il valore di un istante: le decisioni, il passaggio impegnativo o fidarsi di un vecchio cordino per superare un tratto bagnato; scegli e basta e scegli sempre per salire e non per cadere, perchè salire è l'unico modo per creare le condizioni necessarie al movimento, che è arrampicata. 
E' curioso che come in un oroscopo, ognuno veda nelle immagini solo quello che vuole trovare e che sia disposto a convincersi che le difficoltà, oltre che il percorso, possa essere una media ponderata immaginaria fra più relazioni di via decisamente poco concordi fra loro. Già, perchè su internet non ho trovato una buona relazione, o meglio, ne ho trovate molte che se confrontate fra loro mostrano quanto diverso può essere il ricordo di un'esperienza per ciascuno. Ne scelgo due a schizzo e una scritta: obiettivo è avere di volta in volta la soluzione più plausibile a conforto personale.


Il sentiero da Bondo al Sasc Fourà sale ripido in un bosco dai contorni irriconoscibili; sono partito dall'auto nel buio delle 4:30 e come per la relazione di via, il tempo utile per arrivare alla base è oggetto di discussione: dalle 2 alle 3 ore e mezza. Assesto il fiatone su un ritmo sostenibile, fa un umido eccessivo vista la quota e il torrente che scende ai lati del sentiero da qualche parte fa un rumore assordante. Arrivato al Sasc Fourà completamente sudato, vedo per la prima volta il Piz Badile (sono ancora in Svizzera), coronato da una fila di lucette che segue immobile il profilo dello spigolo nord est. A che ora saranno partiti quelli? Continuo a camminare, con le gambe sempre più affaticate ma almeno con un obiettivo visivo da raggiungere.


Arrivo al colletto a 2550 m di quota, punto di partenza dello spigolo nord e raggiungo due svizzeri. Lo spettacolo è imponente: da lì la parete nord est scende a picco da 800 metri più in alto per piantarsi come un vero badile nel ghiacciaio; sopra di noi una decina di cordate (quelle visibili); sono le 7 e fa decisamente più freddo che a valle. Chissà perchè ma in quei momenti gli occhi guardano subito verso la cima, come per impossessarsi già di un qualcosa che ancora non ci appartiene, ma che ci serve.


Non si scala qualcosa che la tua mente non abbia già visto e percorso, anche grazie solo ad una foto, ma che in quel momento ha bisogno di riconoscere per iniziare il confronto. Guardo in basso la cengia arcuata, accesso per la parete nordest: è un taglio orizzontale fra le placche inclinate e bagnate che affondano nel ghiacciaio del Cengalo e l'imponente parete soprastante; sembra il risultato di una forza di lisciatura mostruosa e immobile. C'è qualcosa che mi fa impressione e sembra potermi travolgere, non una sensazione di pericolo imminente ma quasi un carattere evidente che non riesco ancora a decifrare, una presenza più che un inganno. 
Sono qui per la Cassin, anche se confesso da giorni a me stesso che mi riserverò di scegliere di partire solamente in caso di avvenuta ispirazione sul posto. Lo so, è una facile scorciatoia mentale, ma non riesco a promettermi niente del genere. 
La cengia in basso sotto di me sembra l'orlo ondulato di un mantello scuro e devo percorrerla fino in fondo per trovare il diedro Rebuffàt che inizia alla salita fra le sue pieghe. Il nevaio a metà (una rogna senza ramponi) presente in tutte le foto, per fortuna se ne era scivolato a valle lasciando scoperte delle rigole di granito lisciato come calcare. Saluto gli svizzeri e cerco di fare tutto rapidamente, per non attivare troppi pensieri. E invece penso: si era deciso di salire leggeri no? Tre coppie di moschettoni e una ghiera con discensore, poche barrette, due pesche e un litro d'acqua, solo un pile leggero e un piumino. Mi lego la corda e lei sale liscia senza intoppi. Quando mai sono caduto sul V? Mai, perché dovrei cadere qui. Il granito è sano e ruvido, poi incontro sicuramente qualcuno, ci parlo un po' assieme. Zero paranoie, scala e basta. 
Capita spesso che i pensieri ad un certo punto si confondano fra loro come le immagini in un sogno: non riconosci più i volti e chi fa cosa, né sai perchè. Parto e sbaglio fessura, devo ridiscendere arrampicando; il Rebuffàt è più a sinistra, quando lo vedo lo riconosco da una foto e per fortuna è più facile di quanto sembri: sale presto la confidenza e mi sento leggero.

Gaston Rebuffàt
Dopo qualche minuto arrivo a pochi metri dal “Primo bivacco Cassin”, il settimo tiro circa; devo ancora finire una placca a tacche quando due francesi mi lanciano addosso le corde delle doppie senza troppi complimenti; uno dei due era stato centrato al piede da una grossa pietra ed era visibilmente dolorante. Gli chiedo dov'è il punto da cui deviare verso sinistra, me lo indicano e sbaglio di nuovo via. Dalla sosta mi abbasso troppo lungo delle lame e dopo un traverso mi resta come unica possibilità una fessuretta da 1 cm incisa in una placca di quarzo bianco in diagonale verso l'alto, poi uscita a scavalcare uno strapiombo a rovesci su grossi massi fessurati.


Trovata la sosta successiva, dopo 20 metri di traverso ho la sensazione di nausea che mi prende quando la situazione mi sembra uno stallo: sopra al terrazzino solo delle placche verticali e la doppia da quel punto diventava difficile. Fumo una sigaretta e preparo un mezzo barcaiolo in vita, passo l'asola dentro ad uno dei 6 moschettoni che lascio in sosta e parto; con l'asola di circa 7 metri attraverso a destra un'ombra di cengia e supero un diedro appena accennato, sciolgo il mezzo barcaiolo e arrivo facile alla cengia mediana; in quel momento le relazioni erano già andate per strade differenti da un pezzo. 
Le nuvole sono molto vicine, la cima è un qualcosa a cui non penso da un po', tutta la concentrazione è stata per i dettagli e a sentire il proprio corpo interpretarli secondo la soluzione più giusta, quell'unica soluzione che permette di non smettere mai e continuare ad arrampicare.


Il movimento ha il potere di un mantra, deve ripetersi per autoalimentare la sicurezza della mente. 
Incontro Alberto e Roby, due ragazzi bergamaschi, come se ne potrebbero incontrare ovunque. Nel senso che nessuno sembrava stupito di cosa stesse facendo l'altro, eravamo lì tutti per la stessa cosa e guarda caso, la loro relazione era ancora diversa dalle mie. Scalano alternati e quando il primo parte per il tiro successivo al mio, io raggiungo il secondo in sosta; sembriamo un'unica cordata, dove le preoccupazioni del singolo diventano quelle di tutti, apparentemente.

Alberto


Le mie sono anche quelle di fare più in fretta, per non fare aspettare troppo Danilo in auto a Bagni di Masino; uscito dai camini finali, supero i due compagni di scalata e dopo un traverso su roccia instabile verso destra, raggiungo lo spigolo nord-est con una piccola calata e mi unisco alle altre cordate dirette verso la cima. 
La cima del Badile è un punto sulla sua cresta infinita segnalato dalla presenza di una specie di obelisco di latta; esserci arrivato è un risultato positivo, ma come tutte le cime ha il sapore amaro del veleno. L'aspettativa prima di un'esperienza simile è quella di arrivare ad un punto in cui si capisce qualcosa che prima non si riusciva ad afferrare, perchè finalmente la mente si libera di tutto il necessario e ed usa il corpo solo per i propri fini; è lei che muove tutto e cerca la strada, in un percorso dove i ricordi casuali e il presente si mescolano al di fuori del tempo. Ma è sempre la mente in questo stato ipertrofico che mi allontana dalla vera conoscenza di me stesso, l'equilibrio perfetto che ho cercato di simulare in ogni passaggio nel giusto stato d'animo. 


La libertà è uno spazio tridimensionale, che dobbiamo essere capaci di dilatare il più possibile comprendendo all'interno luoghi e persone. In montagna questa possibilità aumenta: inizia dalla concentrazione sul dettaglio alla base della parete e arriva alla contemplazione della vastità in cima alla montagna. E' un processo che inizia dentro e si allarga per comprendere, sia nel senso di avvicinare che di capire. L'arrampicata unisce il corpo alla mente e assieme al tutto fanno parte di un unico orizzonte, ma percepire questo orizzonte non è facile fintanto che si scala e quella della cima resta un'esperienza dissociata.


Non mi resta che rimettere le scarpe per la discesa, passare al Gianetti prima del buio ed entrare nel bosco zoppicando per il dolore al menisco. Tre ore di cammino e sono con Danilo, di nuovo davanti ad una birra, nuovamente con un corpo stanco e una mente che pensa ad una nuova cima.

Nessun commento:

Posta un commento